Woody Allen è uno di quei personaggi che divide il pubblico: chi lo ama e chi lo odia, anche senza conoscerlo. Eppure è uno dei cineasti che meglio ha saputo dipingere personaggi realistici e sviluppare intrecci coinvolgenti, soprattutto dal punto di vista psicologico, sia nei film comici che in quelli drammatici.
Woody Allen e la psicoanalisi
Da circa vent’anni non perdo un suo film. Poco mi interessa della sua vita privata: lo trovo geniale. Il suo sguardo sugli uomini e sulle donne è veramente profondo, pochi sanno ricostruire le emozioni delle persone come lui. Soprattutto la sua capacità di calarsi nel punto di vista femminile è toccante: se vedrete “Un’altra donna” potrete apprezzare il suo modo di approcciare al tema della maternità. Forse in questo lo ha aiutato il suo complicato rapporto con la psicoanalisi: è noto che Allen sia stato in analisi per moltissimi anni (forse lo è ancora), navigando da un terapeuta ad un altro, intraprendendo analisi interminabili. Il suo rapporto con la psicoanalisi è sempre stato ambivalente, su di essa ha scritto battute taglienti:
“La psicoanalisi è un mito tenuto in vita dall’industria dei divani”
“Ero molto depresso in quel periodo. Intendevo uccidermi, ma ero in analisi, e i freudiani sono molto severi al riguardo. Ti fanno pagare le sedute che perdi”
In ogni caso, senza dubbio la psicoanalisi ha arricchito la sua capacità introspettiva e il suo sguardo sull’uomo.
Un’altra donna
In questo post vi parlerò di “Un’altra donna”, un film drammatico del 1988. In questa pellicola la protagonista è Marion, una insegnante di cinquant’anni, che alle prese con la scrittura di un romanzo decide di affittare un appartamento per dedicarsi a questa attività nel silenzio più assoluto. Dal silenzio però emergono delle voci: da una grata di areazione riesce infatti a sentire, all’inizio involontariamente, le sedute che avvengono nello studio di uno psicoanalista vicino di casa. Fra queste voci la colpisce quella di una giovane donna angosciata, in preda a sentimenti di forte tristezza e vuoto, che comincerà ad ascoltare e riuscirà n seguito a conoscere.
Dalle vicissitudini emotive di questa sconosciuta, Marion inizia ad avviare una profonda riflessione sulla propria esistenza, che la porta a rivedere il proprio percorso fino a ripescare episodi dimenticati del passato. La riflessione si trasforma poi in un completo cambio di prospettiva, che la porterà a modificare radicalmente la propria esistenza.
Questo film ci insegna l’importanza del prendere consapevolezza delle proprie emozioni: all’inizio vediamo una donna incastrata – senza accorgersene – in una routine che non ascolta nemmeno più, via via la troviamo prendere sempre più contatto con la propria realtà e il proprio mondo emotivo. In questo la aiuta la possibilità di confronto con la sconosciuta: dopo il loro incontro, Marion ascolta un’altra seduta, in cui la paziente parla proprio di lei, e ne fa un quadro che la tocca profondamente. Nel procedere del film Marion finalmente può cogliere il senso della propria esistenza e grazie a questo cambiare se stessa e il proprio mondo.
“Un’altra donna” ci insegna anche come, a volte, siano incontri fortuiti o piccoli accadimenti quotidiani a cambiare il gusto della nostra vita, e quindi ci permette di non perdere la speranza: qualcosa accadrà. Infine, ci accompagna a vedere come il nostro punto di vista sulla realtà sia sempre solo uno dei tanti possibili: confrontandosi con le persone del suo passato e con la sconosciuta, Marion può cogliere come gli altri abbiano dato un senso diverso agli stessi accadimenti, dunque può uscire dal proprio egocentrismo e guardare alla vita con uno sguardo più aperto al confronto.
Un film profondo, che ci lascia con questa domanda:
“…e mi chiesi se un ricordo è qualcosa che hai o qualcosa di perduto”
È assolutamente consigliata la visione. Come anticipazione, potete vedere qui alcune scene.
Per un approfondimento sulla psicologia femminile puoi consultare questa pagina.