Pane e tulipani è un film delicato e profondo. Parla di donne, di autostima, di violenza di genere, di possibilità di crescita personale. Racconta la storia di una donna apparentemente fragile, che a un certo punto della propria vita fa una scelta diversa, cambia esistenza e ritrova se stessa. La sceneggiatura, l’ambientazione a Venezia, la recitazione dei protagonisti e la regia lo rendono un film davvero speciale.
La trama
Rosalba è una donna di mezza età, casalinga, ha un marito e due figli. È in gita con la famiglia a Paestum, per una gita organizzata. I figli sono adolescenti, tutti concentrati sulla loro vita. Il marito è insofferente e la bistratta, senza neanche rendersene conto: la sottovaluta, la tradisce, la tratta con sufficienza, come se fosse un oggetto di sua proprietà.
Rosalba viene dimenticata in un autogrill durante una sosta del viaggio di ritorno. Si ritrova sola, senza denaro, senza punti di riferimento. Questa situazione, potenzialmente tragica, si trasforma improvvisamente in una occasione di cambiamento. La donna trova la forza di fare un passo oltre le proprie certezze, cambia città e impara una nuova vita, fatta di possibilità di esprimersi, di indipendenza e di riscatto del proprio valore.
La rilettura psicologica
All’inizio del film Rosalba è invisibile. Lo è per suo marito, per il quale è la serva di casa, e in quanto tale può essere usata e bistrattata. Lo è per i figli, immersi nel percorso di crescita adolescenziale, alla ricerca di una loro identità, anche attraverso l’allontanamento delle figure genitoriali. Lo è, infine, per se stessa.
È talmente abituata a subire le angherie del marito, a dipendere da lui, a considerarsi una casalinga senza altre risorse, accessoria alla felicità dei figli, che di fronte allo scenario dell’abbandono in autogrill ce la saremmo immaginata subito pronta a ripercorrere la strada verso casa. In effetti è così che inizia il suo viaggio.
Poi accade qualcosa: la possibilità di immaginare (e rendere reale) uno scenario diverso.
E allora ecco che Rosalba approda a Venezia, allaccia nuove amicizie, si inventa un lavoro, riscopre passioni e capacità sopite. Ritrova l’amore per se stessa e ricostruisce un senso di autostima, fatto di possibilità di esprimersi e di darsi valore.
Rosalba ora può riconoscersi il diritto alla felicità, per usare le parole dello psicologo Nathaniel Branden.
Evidentemente Rosalba non era così debole come appariva all’inizio del film. Semplicemente si era adattata ad uno stile di vita, ad un modello di comportamento riconosciuto per cui la donna è prima madre e moglie, che persona. Si era costretta a subire il comportamento del marito e dei figli, autorizzandoli a vederla solo come colei che poteva rispondere ai loro bisogni di cura e affetto.
Eppure la via per il riscatto è vicina. Bisogna dire un sì a se stesse e un no agli altri.
Ogni volta che una donna si comprime nel ruolo di “angelo del focolare” dandolo per scontato, senza farsi domande a riguardo, rischia di percorrere una strada in discesa verso l’auto-mortificazione.
Il racconto di un riscatto dalla violenza
In Rosalba possiamo vedere una metafora delicata e allusiva di ciò che accade a tante donne vittime di violenza di genere (che sia verbale, fisica, economica). Subire violenza significa sottoporsi ad un processo di umiliazione al quale è davvero difficile sfuggire. Si inizia col sentirsi in pericolo, si cerca la strada più semplice per sopravvivere: subire in silenzio, senza ribellarsi. Si perde fiducia in se stesse e negli altri, si immagina che nessuno possa essere d’aiuto e che la situazione sia senza via di scampo. Si entra in un tunnel senza via d’uscita.
A volte queste condizioni sono sottili, difficili da identificare. Diversamente da quanto accade in chi subisce vessazioni fisiche, che in quanto atti concreti lasciano una traccia visibile, le vittime di violenza verbale, psicologica o economica hanno difficoltà ad riconoscersi in questa condizione.
Sono certa che se Rosalba potesse parlare, specialmente all’inizio del film non si descriverebbe come una donna vittima di violenza. Non si attribuirebbe questa condizione per il solo fatto che il marito le urla contro al telefono o la tiene sotto scacco perché non è indipendente a livello economico. Eppure su questi presupposti si costruiscono le basi per un’esistenza infelice, per la frustrazione di sé e – nei casi peggiori – per accettare forme di vessazione ancora più pericolose.
È solo grazie all’acquisire consapevolezza e al ritrovare fiducia personale, come accade a Rosalba, che è possibile riconoscere i propri diritti e avviare un viaggio verso il riscatto personale.
Pane e tulipani è un messaggio di speranza, lo consiglio a chiunque si senta insoddisfatto/a, oppresso/a o senta di aver timore nel fare un passo avanti verso il cambiamento.
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“Pane e tulipani” è un film di Silvio Soldini del 2000.