Quale immagine della donna manager propongono i film contemporanei? Il cinema è un’ottima cartina al tornasole per verificare gli stereotipi culturali della nostra società. Che sia italiano, europeo, made in USA o asiatico, ci racconta il modo in cui vediamo e raccontiamo il mondo.
Il cinema come agente di cultura
Ogni storia raccontata può essere seguita sulla base di due presupposti: gli elementi che ci vengono forniti dalla regia e dalla sceneggiatura e quelli che possiamo comprendere senza bisogno di spiegazioni, perché corrispondono agli schemi mentali che abbiamo in mente e che ci permettono di leggere (semplificandola) la realtà. Ad esempio, siamo subito in grado di riconoscere se una situazione di gruppo è una riunione di lavoro, una festa o un funerale sulla base degli schemi mentali e culturali in nostro possesso.
Vi faccio un esempio: avete fatto caso che nei film USA a un funerale segue sempre un banchetto? A noi italiani suona strana questa abitudine, eppure per gli americani è una cosa normalissima. Lo sbigottimento di fronte al banchetto è proprio l’eccezione che conferma la regola della nostra capacità di riconoscere un contesto sociale, in un paradigma culturale di riferimento condiviso.
Dunque, osservare come certi tipi di situazioni siano proposte nel cinema è utile per cogliere quale cultura possediamo e quale tramandiamo. Non dimentichiamo che attraverso le pellicole si possono cambiare le abitudini delle persone: famoso è l’esempio della schiuma per il bagno, diventato prodotto essenziale da quando entrata nelle scenografie cinematografiche.
Gli stereotipi della donna manager: la donna invisibile
Partiamo da un dato oggettivo: quante donne manager vi vengono in mente nei film visti negli ultimi cinquant’anni? Io credo che si contino sulle punte delle dita di – al massimo – due mani.
Sono veramente pochi. Quasi sempre il capo, il responsabile, la guida è un uomo. Questo è il primo grande stereotipo con il quale ci confrontiamo: la donna manager non c’è. E quando c’è, è un caso eccezionale, atipico, anomalo, esito di eventi fortuiti.
I pochi esempi della storia del cinema
Ho ripensato ai film visti dal 2000 in poi, e mi sono venuti in mente questi esempi:
- Miranda di “Il diavolo veste Prada” (USA, 2006)
- Angie di “In questo mondo libero” (UK, 2007)
- Suzanne di “Potiche. La bella statuina” (Francia, 2010)
- Anita di “Ho ucciso Napoleone” (Italia, 2015)
- Jules di “Lo stagista inaspettato” (USA, 2015)
- Bernadette di “Che fine ha fatto Bernadette?” (USA, 2019)
Esempi che, nella maggior parte dei casi, consolidano e diffondono i soliti due stereotipi della donna in posizione di potere: la donna maschia e la donna instabile.
Lo stereotipo della donna maschia
La donna “maschia”, fredda e deprivata delle emozioni: Miranda (Il diavolo veste Prada) e Anita (Ho ucciso Napoleone) sono donne che, pur vestite con tailleur e gonne femminili, incarnano un modello severo, autoritario, privo di umanità e calore.
Sono entrambi modelli caricaturali, ma nel loro essere tali ci raccontano l’incoerenza del binomio femminile e potere, femminile e guida.
Trasmettono l’idea che una donna debba spogliarsi dell’emotività per poter interpretare la leadership, e nel contempo dipingono la donna manager come una macchietta, un finto uomo posticcio che non è più né donna né uomo, ma solo una caricatura. Insomma, un soggetto poco rassicurante, privo di sentimenti, dal quale sentiamo solamente il desiderio di tenere le distanze.
Lo stereotipo della donna instabile
Angie (In questo mondo libero), Jules (Lo stagista inaspettato) e Bernadette (Che fine ha fatto Bernadette) sono modelli di instabilità, le classiche isteriche, le schiave del ciclo. Donne che non riescono a governare le emozioni e che quindi si cercano una stampella maschile (lo stagista di Jules), rimangono vittime delle loro iniziative (Angie) e addirittura abbandonano il campo (Bernadette) per l’incapacità di sostenere la fatica di dirigere. Sono modelli che confermano la presunta inadeguatezza strutturale della donna a ricoprire funzioni manageriali.
Angie, per quanto vittima di un sistema (come molti dei personaggi di Ken Loach), è la dimostrazione di come avvenga il passaggio da vittima (debole) ad aguzzina (maschia, instabile e cinica): da donna molestata sul lavoro a caporale senza scrupoli. È il personaggio peggiore, perché trasforma il tentativo di riscatto in una dimostrazione di inadeguatezza.
L’esempio della leadership femminile
Fra quelli che ho proposto, il solo esempio che salva veramente l’immagine del femminile alla guida è quello di Suzanne (Potiche. La bella statuina), non a caso l’unica che ci mostri l’evoluzione da donna angelo del focolare/madre di famiglia/reclusa domestica a donna manager.
Suzanne riesce a mantenere la propria femminilità e interpretare un ruolo dirigenziale in modo credibile. Nella sua evoluzione troviamo il segno di un adattamento a un ruolo che non le si confà completamente, ma al quale riesce ad aderire costruendo una managerialità calda, femminile, comprensiva, senza perdere di vista l’efficacia e l’efficienza.
Potiche è un film da mostrare alle nuove generazioni, perché possano avere punti di riferimento diversi dai soliti stereotipi e costruire un modello di donna leader a cui tendere, in una evoluzione sartoriale che deve partire dall’interiorità individuale e su di essa costruirsi, perché non ci sono veri standard a cui fare riferimento.
Se vuoi una consulenza per sviluppare il tuo modo personale di interpretare la leadership, contattami.
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